La nostra privacy e il furto dei dati: il pericolo è in casa

Leggi l’articolo originale su Il Fatto Quotidiano
di Giovanni Valentini

La privacy del singolo coincidecon una questione evidentemente legata alla libertà collettiva
(da “Intervista suPrivacy & Libertà”di Stefano Rodota.
a cura di Paolo Conti- Laterza, 2005)

Lo sapevate che ogni volta che prendete alloggio in un albergo, in una pensione o in un b&b, la vostra presenza viene registrata – a futura e indelebile memoria – nelle banche dati delle Forze di polizia, in base a una normativa che risale a mezzo secolo fa? L’obbligo deriva dall’articolo 12 del decreto-legge n. 59 del 21 marzo 1978, collegato all’articolo 109 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. In altri Paesi – come, per esempio, la Francia – non è obbligatorio chiedere i documenti al cliente e registrare i suoi dati. Per carità, chi non ha niente da nascondere non ha niente da temere. Ma ognuno ha il diritto, comunque, di esserne informato e averne consapevolezza per non essere esposto a eventuali discriminazioni. È nello stesso tempo una questione di tutela dell’identità personale e della libertà di ciascuno. Il rischio che i dati personali coperti dalla riservatezza – anagrafici, sanitari, sessuali o di qualsiasi altro genere – vengano di!usi e utilizzati a nostra insaputa, è amplificato oggi dall’uso delle nuove tecnologie: telefonini, computer, tablet e quant’altro. E perciò la violazione della cybersicurezza diventa un pericolo non solo individuale, ma anche collettivo per la vita democratica. I casi inquietanti degli ultimi tempi, dai dossieraggi di Milano alle spiate bancarie di Bari, hanno fatto scattare l’allarme rosso. Nessuno può sentirsi al riparo dall’invadenza di questo “Grande Fratello” di orwelliana memoria.

Che cosa si può fare, allora, contro un tale “nemico invisibile” che minaccia la società? Come difendere la nostra privacy? È possibile rafforzare la sicurezza? A queste domande risponde uno studio di Roberto De Vita, avvocato penalista, professore alla Scuola della Guardia di Finanza e presidente dell’osservatorio Cybersecurity di Eurispes. Il fatto è che, ormai, “pubbliche amministrazioni e società private amministrano o raccolgono nelle loro banche dati una mole straordinaria e crescente di informazioni a elevatissima sensibilità e criticità. Informazioni riguardanti gli aspetti più delicati della vita dei cittadini e delle imprese”. Ma, come mette in rilievo De Vita, “mentre nel tempo è cresciuta e sta crescendo la capacità di difesa (tecnica e comportamentale) dagli attacchi esterni al perimetro dell’organizzazione, non è altrettanto vero rispetto al rischio di compromissioni e dispersioni informative originanti dall’interno, da un dipendente o da un collaboratore che abbia privilegi di accesso e li devii per attività illegittime e anche illecite”.

A suo parere, insomma, ora il pericolo maggiore viene dall’interno del sistema: “Il dato macroscopico riguarda la mancanza strutturale di un monitoraggio capillare automatiz- zato degli accessi alle banche dati che, attraverso gli algoritmi, riesca a costruire indici di rischio comportamentale in modo da orientare selettivamente il controllo su specifici accessi e su specifiche condotte di dipendenti”. Il peggio è che “questa mancanza non dipende da complessità tecniche, ma da una colpevole sottovalutazione del rischio, da un’idea proprietaria dei dati raccolti e da una presunzione di insindacabilità del loro utilizzo interno”. La conclusione di De Vita, a parte le competenze della magistratura e l’ampliamento dei poteri attribuiti alla Procura nazionale antimafia, è un appello al Garante della Privacy e all’agenzia per la Cybersicurezza nazionale al fine di promuovere un’indagine conoscitiva su tutte le banche dati pubbliche, per verificare i loro sistemi di gestione e proteggere le informazioni dai rischi interni ed esterni.