Maltrattamenti “fattore culturale”, denunciati i magistrati bresciani che assolsero l’ex marito

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I tre magistrati di Brescia che scagionarono l’uomo, attribuirono di fatto all’ex coniuge (e al nuovo compagno) i reati di falsa testimonianza e calunnia, senza disporre la trasmissione degli atti al pm.

Sulla sentenza d’assoluzione ci sarà l’appello, ma a Venezia è stato aperto un fascicolo in cui sono indagati i giudici che hanno pronunciato la sentenza di assoluzione.
La Procura della Serenissima indaga sui tre giudici bresciani che assolsero il 17 ottobre 2023 Hasan Md Imrul, originario del Bangladesh, accusato dall’ex moglie connazionale S. per maltrattamenti e violenza sessuale per il quale in un primo momento era stata chiesta l’assoluzione dalla Procura. La richiesta di assoluzione aveva sollevato polemiche e anche l’intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio che le aveva definite “inaccettabili”. L’imputato venne poi assolto «perchè il fatto non sussiste» su richiesta del pm che eliminò nella requisitoria il riferimento alla cultura di provenienza.

La giovane donna e il suo attuale compagno, un capitano della Guardia di Finanza, hanno denunciato i magistrati di Brescia Maria Chiara Minazzato, Mauro Liberti e Wilma Pagano perchè nelle motivazioni al verdetto li avrebbero, di fatto, accusati di falsa testimonianza e calunniasenza però trasmettere gli atti ad altri giudici come sarebbe stato loro dovere fare per accertare eventuali bugie.
Le accuse ipotizzate per le toghe nella denuncia sono «omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale» e «abuso d’ufficio» poichè, nelle motivazioni dell’assoluzione di Hasan Md Imrul, fanno riferimento a «incoerenze, mendacità e contraddizioni» nelle testimonianze rese dai due nel corso delle indagini arrivando ad affermare che, a causa loro, è stato «prodotto un macroscopico e irrimediabile inquinamento probatorio».

Stando quanto riferisce l’AGI, la pm di Venezia Valeria Sanzari ha aperto, come atto dovuto sulla base della denuncia, un fascicolo d’indagine sui giudici bresciani.
In sostanza, i due chiedono di essere processati a Venezia, competente sulle ipotesi di reato dei colleghi bresciani, anche perchè, «a causa dell’elevatissimo clamore mediatico del caso», è stata messa in dubbio la loro onorabilità.
«Sono pronto ad affrontare le conseguenze di un processo a mio carico – scrive nella denuncia letta dall’AGI il finanziere – purchè venga accertata la verità dei fatti e, così, riconosciuta la mia assoluta onestà e innocenza e chiedo che i magistrati debbano rispondere per l’omissione della trasmissione degli atti alla Procura e dell’abuso d’ufficio in mio danno. In relazione alla mia testimonianza, i giudici hanno di fatto espresso un giudizio di condanna, che lede la mia reputazione e il mio onore militare, senza avere avuto la possibilità di difendermi. Se ho commesso quel fatto è giusto che venga dichiarato responsabile ma è mio diritto poter dimostrare la mia assoluta innocenza senza le ombre del dubbio che contaminano la mia figura».

Stesso ragionamento vale per S. che accusava l’uomo anche di averla ‘comprata’ e poi costretta a sposarlo. Nelle motivazioni i giudici avevano sostenuto che le dichiarazioni del finanziere e dell’attuale compagna erano state «smentite da altri testimoni» e che, in ogni caso, mancava l’elemento dell’«abitualità», necessario per integrare il reato di maltrattamenti. La legale di parte civile, Valentina Guerrisi, ha fatto ricorso in appello argomentando che «è evidente come tutta la ricostruzione offerta in sentenza, quasi con spirito di partigianeria solidale con un maldestro pm gravemente scivolato nel relativismo giuridico e culturale, abbia ricalcato lo schema percorso dal magistrato inquirente in un primo momento».

In particolare Guerrisi sostiene che il Tribunale abbia ignorato “le fotografie delle violenze, comprese quelle inerenti l’obbligo di indossare i vestiti tradizionali, per concentrarsi sui messaggi tra la donna e il capitano della Guardia di Finanza del tutto irrilevanti per i fatti in contestazione e carpiti illecitamente dall’imputato al solo fine di contrastare il tentativo della moglie di liberarsi dal suo giogo».

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