Minori, anche infra-quattordicenni, arruolati sempre più numerosi dalla criminalità organizzata, baby gang strutturate, armate e feroci come clan, spaccio di stupefacenti vissuto come “alternanza scuola-lavoro” e violenze sessuali di gruppo come esuberanze adolescenziali, modelli criminali come stili di vita cantati e agiti.
La delinquenza minorile si “normalizza” sempre di più, inscrivendosi nell’ambito di un generalizzato “disagio giovanile” più che in una devianza in senso stretto, sintomo di una società in trasformazione, ma anche di istituzioni e strumenti di prevenzione e contrasto inadeguati. La città dei ragazzi è un mondo ormai abitato dai fantasmi delle frustrazioni e del dolore, di sogni irraggiungibili, anestetizzati da alcool e stupefacenti, con un aumento spaventoso delle dipendenze tra giovani sempre più piccoli. Una città abbandonata dagli adulti, sempre impegnati in altro, inadeguati e disorientati, pronti alla fuga dal fallimento genitoriale e tesi a colpevolizzare scuole e istituzioni, spaventati e ormai rassegnati.
A fronte di una società sempre più in allarme per una gioventù vissuta come deviante, pericolosa e fuori controllo, il sistema italiano della giustizia minorile (frutto di molteplici interventi legislativi, stratificati ma non organici) manifesta la cronicizzazione della propria incapacità, non solo al raggiungimento degli scopi originari ma, soprattutto, ad essere percepito come baluardo della protezione dei minori e della prevenzione della criminalità giovanile.
Negli ultimi decenni, in Italia la popolazione degli imputati minorenni ha subito significativi cambiamenti, riflettendo dinamiche sociali, culturali e legislative che hanno plasmato il contesto della giustizia minorile nel Paese.
Una delle trasformazioni più evidenti riguarda la percezione della responsabilità penale dei minori. Nel corso degli anni, si è assistito a un cambiamento di approccio, passando da una visione severo-paternalistica ad un paradigma più orientato verso la responsabilità individuale. Questo cambiamento è stato evidente soprattutto con la riforma del 1988, che ha introdotto l’istituto della sospensione del processo con la messa alla prova dell’imputato minorenne, volta a coinvolgere attivamente il minore nel proprio percorso di rieducazione.
In tale ottica, è cresciuta la consapevolezza dell’importanza di evitare il ricorso sistematico alla reclusione per i minori. Questo ha portato all’implementazione di programmi ed iniziative volte ad offrire soluzioni rieducative e preventive, riducendo così il numero di giovani incarcerati. La sospensione condizionale del processo, l’istituto della “irrilevanza del fatto”, il perdono giudiziale, ed altre misure finalizzate alla rapida fuoriuscita del minore dal sistema della giustizia minorile (considerato di per sé afflittivo e stigmatizzante) hanno, tuttavia, spesso guadagnato terreno come strumenti deflattivi dei carichi di lavoro dei tribunali e della carenza drammatica di risorse per i servizi sociali minorili. Approccio che ha anche ridotto, se non eliminato del tutto, il confronto con le vittime (quasi sempre assenti nel procedimento minorile) e che, inoltre, si dimostra assolutamente inadeguato davanti all’esponenziale aumento dei fenomeni di criminalità di gruppo. Il risultato è che il minore non solo non si confronta con la pena (a prescindere dalla natura di questa), nemmeno sotto il profilo del timore vissuto, ma non si confronta neanche con il processo e con le vittime: elementi, quest’ultimi, che costituiscono percorsi comunque responsabilizzanti.
I fenomeni di maggior allarme: le baby gang
Nel 2022 erano 14.221 i minori in carico al servizio sociale minorile nell’ambito dei procedimenti penali per i reati più gravi, tra i quali 6.400 campani. I ragazzi detenuti presso i 17 Istituti Penali Minorili erano 400, di cui 201 (il 50%) minori stranieri, principalmente rumeni, a seguire marocchini e quindi albanesi.
Accanto al fenomeno con maggiore diffusione nel mezzogiorno ed in particolare in Campania e nelle città metropolitane siciliane e pugliesi, dell’arruolamento da parte delle mafie di ragazzini per attività di trasporto e spaccio di stupefacenti, il fenomeno criminale giovanile che sta maggiormente preoccupando negli ultimi tempi è rappresentato dalle c.d. “baby gang”, gruppi composti di minori e talvolta giovani adulti, che si rendono protagonisti di reati di particolare allarme: risse aggravate dalle conseguenze e dall’uso di armi da fuoco, omicidi, rapine ed estorsioni, spaccio organizzato e con reti capillari e diffuse, violenze sessuali di gruppo.
Secondo i dati raccolti sul territorio dalle Forze di Polizia e dai Servizi sociali, i caratteri maggiormente distintivi delle baby gang sono la gravità e la ripetitività dei reati commessi[1]. I gruppi spesso si distinguono per comuni caratteristiche socio-anagrafiche dei componenti, tipologia di attività sui social media e il tentativo di operare forme di controllo sul proprio territorio.
È particolarmente difficile operare un’attività di raccolta dati analitica per identificare il numero di gang giovanili sul territorio e l’incidenza di queste sul numero complessivo dei reati commessi dai minori. Tuttavia, esistono numerosi indicatori in grado di fornire quantomeno un’immagine sulla crescita del fenomeno.
Una ricerca del 2022 effettuata in collaborazione con il Ministero della Giustizia ha evidenziato come vi sia stato un aumento notevole degli articoli di stampa contenenti riferimenti a “gang giovanile” o “baby gang” nell’arco degli ultimi anni. In particolare, si è passati dai 612 del 2017 fino ai 1909 del 2022.
Sebbene la misura di tale aumento possa in parte essere dovuta ad una accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica sul tema, i Comandi Provinciali dei Carabinieri e le Questure dichiarano come siano in aumento – nel medesimo periodo – i casi di risse, percosse, lesioni, furti o rapine in pubblica via e disturbo della quiete pubblica riconducibili a baby gang.
Altro dato rilevante è la composizione di questi gruppi: la maggioranza dei ragazzi sono italiani e circa la metà non provengono da situazioni di disagio socio-economico, con una prevalenza di adolescenti tra i 15 e i 17 anni.
Esistono diverse tipologie di baby gang, alcune delle quali ispirate a gruppi di criminalità organizzata nostrani o stranieri, ma le più diffuse sono rappresentate da gruppi di ragazzi non organizzati, con legami sociali deboli e privi di gerarchie definite o fini criminali specifici, dediti soprattutto ad attività violente o devianti occasionali.
Secondo i dati degli USSM (Uffici di servizio sociale per i minorenni), solo il 3% di ragazzi coinvolti in reati legati a bande giovanili finiscono negli Istituti di pena per minorenni. La maggior parte, invece, vengono interessati da programmi rieducativi: l’istituto della messa alla prova è applicato a circa il 50% di questi minori.
Tuttavia, si evidenzia come a fianco di pur lodevoli attività di studio, lavoro, socialmente utili o di mediazione con le vittime, sono molto minoritarie (intorno al 15%) le prescrizioni riguardanti il rispetto degli orari o il divieto di frequentare determinati luoghi e persone.
Tale aspetto, invece, dovrebbe assumere primaria importanza per gli imputati per reati commessi con altri minori. Infatti, nel periodo dell’adolescenza i maggiori fattori di influenza sulla formazione della personalità di una persona sono costituiti dal supporto familiare e dai rapporti con i propri coetanei[2].
Secondo alcuni studi, gli adolescenti con amicizie o gruppi di carattere prosociale avrebbero una minore probabilità di adottare comportamenti antisociali (c.d. peer pressure[3]) e sarebbero in grado di fronteggiare meglio anche eventuali avversità provenienti dal nucleo familiare[4]. Infatti, la disapprovazione da parte dei propri pari di comportamenti criminali ridurrebbe la commissione di reati violenti.
Al contrario, la frequentazione di coetanei devianti è molto spesso il più significativo predittore di comportamenti antisociali[5].
Il problema delle gang giovanili è stato affrontato in vario modo negli ordinamenti stranieri, con l’approccio adottato spesso influenzato dalla gravità e dalla diffusione del fenomeno in ciascuna nazione. Negli Stati Uniti, in particolare, le baby gang sono state oggetto di grande attenzione nel dibattito pubblico. Il fenomeno, infatti, ha avuto un impatto significativo soprattutto nelle comunità urbane, dando vita a strategie di contrasto che si sono evolute nel corso del tempo. Negli anni ’80 e ’90, alcune città statunitensi hanno implementato approcci più aggressivi, utilizzando politiche di “law and order” particolarmente forti e aumentando le pene per i reati associati alle gang.
Tuttavia, negli ultimi decenni, c’è stata una transizione verso approcci più orientati alla prevenzione e alla riabilitazione. Programmi di prevenzione, interventi dei servizi sociali, opportunità educative e programmi di reinserimento sono stati sviluppati per offrire alternative alla vita nelle bande e ridurre la vulnerabilità dei giovani a tale coinvolgimento.
L’approccio varia notevolmente in base alle specificità locali e alla percezione del problema. Mentre alcune giurisdizioni negli Stati Uniti continuano a enfatizzare l’applicazione della legge, molte stanno cercando di bilanciare la sicurezza pubblica con programmi che affrontino le cause sottostanti al coinvolgimento delle gang, come la povertà, la mancanza di opportunità e le sfide familiari.
Infatti, tra gli interventi utilizzati si ricorre alla mobilitazione comunitaria, con il coinvolgimento dei cittadini locali, inclusi ex membri di gang, gruppi comunitari e agenzie, e al coordinamento di programmi e funzioni del personale all’interno e tra le agenzie. Si cerca anche di offrire opportunità: sviluppo di vari programmi specifici di istruzione, formazione e impiego rivolti ai giovani coinvolti.
Non manca un diffuso intervento sociale, con il coinvolgimento di agenzie a servizio dei giovani, scuole, gruppi di base, organizzazioni basate sulla fede, forze dell’ordine e altre organizzazioni giovanili/criminali nel “raggiungere” i giovani coinvolti nelle gang e le loro famiglie, collegandoli con il mondo convenzionale e i servizi necessari.
Naturalmente, a tutto ciò si accompagnano strumenti di soppressione, dalle procedure formali e informali di controllo sociale (inclusa la supervisione e il monitoraggio stretti dei giovani coinvolti nelle bande da parte delle agenzie del sistema giovanile/criminale) fino agli interventi delle scuole[6].
L’interrogativo che ci si pone rispetto al fenomeno nel nostro Paese, dunque, riguarda la capacità dell’attuale sistema minorile di fronteggiare efficacemente fenomeni alquanto complessi, che non si risolvono esclusivamente nel comportamento deviante di un singolo ragazzo, ma spesso – e sempre di più – devono essere inquadrati e risolti nell’ambito di un contesto sociale più ampio.
Complessità che portano spesso il dibattito, soprattutto nell’opinione pubblica e nella superficiale risposta politica ad alcuni accadimenti particolarmente gravi, ad invocare un abbassamento dell’età imputabile e un maggior ricorso al carcere.
L’evoluzione dei principi del processo minorile
La segregazione punitiva dei minori devianti (e il superamento della equiparazione agli adulti nel caso di condotte di reato) ha avuto inizio già nel XVIII secolo, derivando dall’istituzionalizzazione separata dei minori poveri. La Chiesa cattolica si occupava precedentemente dei giovani vagabondi, delinquenti o abbandonati, seguendo un approccio pedagogico-punitivo. Nel corso della storia della legislazione italiana, ci sono state diverse modalità di gestione della giustizia minorile. Nel 1703, Papa Clemente XI fondò i primi istituti specializzati per la rieducazione dei minorenni condannati.
Nel 1890 nel Regno d’Italia entrò in vigore il Codice Zanardelli, introducendo l’imputabilità già dai 9 anni e istituendo i riformatori per la rieducazione. Sotto il fascismo, il Codice Rocco innalzò l’età di presunzione di non imputabilità da 9 a 14 anni. A questo seguì l’istituzione dei Tribunali per i minorenni nel 1934.
Nel 1956, fu introdotto il codice di procedura minorile, segnando una netta svolta in materia, per poi giungere all’attuale impianto con la riforma del 1988 (con il D.P.R. n. 448), grazie a cui il sistema della giustizia penale minorile fu completamente riformato, assumendo le caratteristiche fondanti attuali, focalizzandosi sulla responsabilità del minore e introducendo l’istituto della sospensione del processo con la messa alla prova.
A livello internazionale, il riconoscimento dei diritti dei minori si è diffuso seguendo l’evoluzione dell’affermazione dei diritti dell’uomo e trovando pian piano un proprio spazio autonomo, soprattutto a partire dai primi anni del ‘900, con diritti specifici e particolari esigenze di tutela.
Nel 1913 si tenne a Bruxelles la Conferenza internazionale per la protezione dell’infanzia[7] e, nel 1919, l’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) fissò a 14 anni l’età minima per i bambini impiegati nel lavoro delle industrie e vietò il lavoro notturno per i minori di 18 anni[8]. Il minore venne però considerato per la prima volta soggetto di diritti solo con la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo”[9] approvata nel 1924 a Ginevra e con la quale il minore assunse la dignità di cittadino.
Successivamente, la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo”[10], sottoscritta a New York nel 1959, affermò che il minore, data la sua immaturità fisica ed intellettuale, avesse bisogno di una protezione giuridica che fosse adeguata alla sua condizione e che dovesse essere tenuto costantemente presente “il superiore interesse del fanciullo” – interesse primario per l’intera società; sancì, inoltre, il diritto ad un’istruzione elementare obbligatoria e gratuita.
Nello specifico della devianza minorile e dell’amministrazione della giustizia minorile, rivestono un’importanza fondamentale le “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile” (dette anche ‘Regole di Pechino’)[11], approvate dal VI Congresso dell’ONU nel 1985, che costituiscono la fonte internazionale alla quale si sono ispirati i più moderni codici di procedura penale minorile. Anche il nostro D.P.R. n. 448 del 1988 ha accolto i principi più innovativi di tali regole.
Da questa evoluzione del sistema della giustizia minorile hanno tratto ispirazione vari modelli applicativi. Alcuni di questi sono considerati ancora oggi un punto fermo per gli studiosi di tutto il mondo.
Il modello più innovativo, alternativo all’istituzionalizzazione, è proprio il sistema della c.d. “probation”, introdotto inizialmente in Inghilterra nel 1907 e successivamente diffusosi in tutto il mondo. Consiste in una forma di sospensione della pena, a condizione che il soggetto non commetta altri reati nel periodo di applicazione della misura, sotto la supervisione di un “probation officer”, che controlla e supporta il minore. In aggiunta il servizio “Aftercare”[12] si prende cura dei minori prima, durante e dopo l’esecuzione della condanna, allo scopo di favorire la riabilitazione e la risocializzazione dei ragazzi.
A livello comunitario la Raccomandazione n. 87/20 del Consiglio d’Europa, riguardante le risposte sociali alla delinquenza minorile, ha indicato quali obiettivi della giustizia minorile l’educazione ed il reinserimento sociale, e ribadisce che la pena detentiva deve essere l’extrema ratio, cui devono essere preferite “pene adatte ai minori”.
Con la “Convenzione sui diritti del bambino” del 1989[13], poi, è intervenuta l’ONU a tutela dei minori di diciotto anni. In materia di giustizia minorile prevede che non siano applicabili ai minori né la pena capitale, né l’ergastolo, e sostiene ancora una volta la necessità di ricorrere alla pena privativa della libertà solo in ultima istanza, allorquando non si possa fare altrimenti. Inoltre, i minori privati della libertà devono ricevere un trattamento adeguato alla loro condizione di soggetti in età̀ evolutiva, come ad esempio di mantenere i contatti con la famiglia, mentre lo scopo della giustizia minorile deve essere l’educazione del minore tesa alla promozione della sua persona.
Nel 1990 l’Assemblea Generale dell’VIII Congresso delle Nazioni Unite, sulla prevenzione del crimine ed il trattamento dei delinquenti, ha approvato due documenti fondamentali: i “Principi direttivi di Riyad sulla prevenzione della delinquenza giovanile” e le “Regole Minime delle Nazioni Unite per la protezione dei minori privati della libertà”[14].
Nei “Principi direttivi” viene affermata la necessità che tutta la società si adoperi per favorire uno sviluppo armonioso dell’infanzia e dell’adolescenza, in quanto la prevenzione della delinquenza minorile è essenziale per la prevenzione del fenomeno della delinquenza in generale. In ordine alla procedura, viene raccomandato ai governi di approvare leggi che tutelino i minori, tenendo conto della loro specifica condizione, e di evitare mezzi di correzione duri e degradanti.
Anche nelle “Regole Minime” si afferma che la pena privativa della libertà per i minori deve essere l’ultima possibilità, applicata solamente in casi eccezionali, e che la giustizia minorile debba promuovere il benessere fisico e morale dei minori.
In particolare, l’art. 40 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (ratificata dall’Italia con la legge 176 del 1991) contiene i principi ispiratori dell’applicazione e dell’interpretazione della disciplina del processo penale minorile, sancendo “il diritto del minore sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di aver commesso un reato ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale, che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima”.
In tal modo, hanno preso posto nel nostro sistema penale minorile:
- la finalità di recupero mediante la rieducazione ed il reinserimento sociale;
- il “principio di adeguatezza” (art. 9 d.p.r. 448/1988) secondo cui il processo penale deve adeguarsi “alla personalità del minore ed alle sue esigenze educative”, per la cui realizzazione risulta fondamentale l’operato dei Servi Sociali ed il lavoro interdisciplinare tra tutti gli operatori;
- il “principio della minima offensività” che mira a tutelare il minore dai rischi che possono derivare alla sua personalità ancora in formazione a causa del precoce ingresso nel circuito penale. Ingresso che quindi, ove possibile, va evitato, favorendo la chiusura del processo e l’uscita più veloce possibile del minore dal circuito penale;
- la “destigmatizzazione” (art. 13), mirante ad arginare il più possibile le ricadute nocive che possono ripercuotersi sul minore anche solo dalla notizia di essere sottoposto a procedimento giudiziario, tramite la massima tutela della riservatezza e dell’anonimato rispetto ad ogni soggetto esterno.
- la “residualità della detenzione”, ovvero il concepire ogni intervento penale relativamente ai minori, ed a maggior ragione la misura della detenzione, quale extrema ratio. La detenzione viene quindi giustificata unicamente in caso di grave rischio per la difesa sociale, e solo in assenza di misure alternative che possano portare ad una medesima tutela. Proprio per questo, sono state concepite nuove misure alternative alla custodia detentiva, che hanno una maggiore valenza responsabilizzante con minor impatto costrittivo;
- Il “principio di autoselettività” del processo penale minorile, che fa prevalere sul processo stesso le esperienze educative del minore, sulla base dell’indagine sulla condizione personale unica ed individuale di ciascun minore, attraverso forme di autolimitazione e perfino di chiusura del processo stesso.
In ossequio a questi principi, sono stati introdotti diversi istituti, alla base dei quali si pone sempre la valutazione della personalità del minore, quali ad esempio il perdono giudiziale o la sospensione del processo con messa alla prova.
Rivolgendo uno sguardo in Europa, invece, in Francia sin dal 1945 ha luogo la c.d. “education surveillée”, con cui si mira a coinvolgere la famiglia nel processo educativo del minore autore di reato, cercando quanto più possibile di mantenere il minore nel suo ambiente[15].
Negli anni ’80, in Olanda come in altri paesi del Nord-Europa, sono state elaborate sanzioni alternative, denominate ‘work projects’ (progetti-lavoro) e ‘training-projects’ (progetti-formazione), con finalità di responsabilizzazione e di socializzazione dei minori, che devono partecipare a progetti lavorativi e formativi, supervisionati da un coordinatore[16].
Questi sistemi operano, però, solo dopo che il minore è entrato nel circuito penale ed ha ricevuto una sanzione. Un sistema di misure alternative che, invece, intervengono ancor prima dell’ingresso del minore nel sistema giustizia (o durante le prime fasi del processo) è nato negli Stati Uniti e si indica con il termine inglese “diversion”[17]. Si basa sulla discrezionalità del giudice, che fonda le sue decisioni sul criterio di opportunità invece che su criteri giuridici formali.
Il processo minorile italiano: gli interventi della Corte Costituzionale
Nello sviluppo della giustizia minorile, la Corte Costituzionale ha rivestito un ruolo centrale. Le sentenze della Corte hanno infatti adattato le norme alle esigenze specifiche della giustizia minorile, ispirandone l’interpretazione agli artt. 27, terzo comma[18] e 31, secondo comma[19] della Costituzione. Inoltre, attribuendo autorevolezza alle istanze di gran parte della dottrina in tale materia, hanno costituito un fondamentale punto di partenza verso la riforma del processo penale minorile del 1988.
Già dagli anni ’60 la Corte Costituzionale ha sostenuto l’esigenza di specificità della giustizia minorile, da considerarsi settore autonomo rispetto a quello previsto per gli adulti e volto prevalentemente alla rieducazione. Con la sentenza n. 25 del 1964[20], in particolare, in ossequio all’art. 31, secondo comma della Costituzione, ha stabilito che “la giustizia minorile ha una particolare struttura in quanto è diretta in modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei minorenni”.
Più tardi, la sentenza n. 49 del 1973[21] ha evidenziato l’esistenza di un “peculiare interesse-dovere dello Stato al recupero del minore”, al quale va subordinata la realizzazione o meno della pretesa punitiva. A seguire, la n. 222 del 1983 ha posto la “tutela dei minori” tra gli interessi costituzionalmente protetti; ed il Tribunale per i minorenni tra gli istituti “dei quali la Repubblica deve favorire lo sviluppo ed il funzionamento così adempiendo al precetto costituzionale che la impegna alla protezione della gioventù”.
La sentenza n. 16 del 1981[22], invece, ha ricompreso la previsione della deroga alla pubblicità del dibattimento tra i mezzi approntati dall’ordinamento per il conseguimento della finalità di tutela dei minori, considerando che la pubblicità dei fatti può comportare conseguenze negative allo sviluppo spirituale ed alla vita materiale del minore.
Secondo la Corte Costituzionale, il principio espresso nel secondo comma dell’art. 31 della Costituzione richiede l’adozione di un sistema di giustizia minorile basato sulla specializzazione del giudice e sulla finalità del recupero del minore, che deve essere perseguita “mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, in armonia con la meta additata al comma 3 dell’art. 27 della Costituzione, nonché dall’art. 14, paragrafo 4, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966 e la cui ratifica ed esecuzione sono state disposte con legge 25 ottobre 1977 n. 881)”.
Il richiamo al principio della minima offensività, che ha costituito uno dei principi fondamentali del nuovo processo penale minorile del 1988, è stato operato dalla sentenza n. 206 del 1987[23], che ha evidenziato come lo scopo della giustizia minorile deve essere il recupero del minore deviante attraverso la sua rieducazione ed il suo reinserimento sociale; tale finalità può essere perseguita anche attraverso l’attenuazione dell’offensività̀ del processo.
Si è affermato con forza, dunque, il principio secondo cui il minore è un soggetto da tutelare in quanto tale e lo Stato è vincolato a tale obbligo anche nel caso in cui il minore abbia commesso un reato. Di talché, si è configurato un interesse-dovere al recupero e alla rieducazione del minore stesso, da perseguire attraverso gli organi giurisdizionali minorili.
Il processo penale minorile è diventato in tal modo occasione di recupero sociale del minore, prima che affermazione della pretesa punitiva da parte dello Stato. E dall’indicazione della necessità di prognosi individualizzate per il recupero del minore, emerge la posizione di centralità nel processo, assegnata dalla Corte all’imputato minorenne. Ciò perché nei confronti dei minori il principio rieducativo assume un significato e un’importanza del tutto particolari, in quanto il loro processo educativo non è compiuto, ma è in evoluzione, come anche la loro personalità̀. Tutto il sistema penale minorile è, quindi, improntato quasi esclusivamente alla rieducazione, che viene considerata un interesse-dovere dello Stato, ed a cui è subordinata la pretesa punitiva stessa, come emerge anche dalla citata sentenza n. 49 del 1973[24].
Lo stesso D.P.R. 448 del 1988 afferma esplicitamente che il processo penale minorile “non deve interrompere i processi educativi in atto” e disciplina, pertanto, interventi che mirano a non intralciare lo svolgersi del processo educativo-evolutivo-relazionale, per evitare che una sua interruzione destabilizzi una personalità in via di strutturazione.
Così nel processo penale minorile si va oltre la funzione rieducativa della pena prevista dal terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, in quanto lo scopo della difesa sociale è subordinato allo scopo principale dell’educazione del minore, in quanto per il legislatore, la prevenzione attuerebbe una maggiore difesa sociale.
Il Giudice minorile: il ruolo dei componenti onorari
Nel sistema della giustizia minorile il punto di maggior criticità è rappresentato da una carenza di terzietà del giudice in determinate valutazioni, stato questo che ne può minare alla radice la necessaria imparzialità[25]. Infatti, nei Tribunali per i minorenni le funzioni decisionali tipiche del potere giudiziario sono commiste e spesso surclassate dalle funzioni socioassistenziali, che, pur necessariamente presenti, dovrebbero però essere separate e distinte in un “giusto processo” anche minorile. Perché il Giudice possa essere terzo e imparziale è infatti necessario che il suo ruolo nel processo sia limitato alla definizione del caso in base alla normativa vigente ed applicabile e non gli sia demandata in via prevalente la gestione della situazione sottoposta al suo potere decisionale in un’ottica socioassistenziale, con conseguente esercizio dei propri poteri in funzione non decisoria.
Tale pericoloso sbilanciamento è d’altra parte attestato e chiaramente rappresentato dalla provenienza di praticamente tutti i giudici onorari (ovvero i componenti non togati) dai servizi sociali; presenza “giudicante” non solo anomala, ma in numero di gran lunga prevalente rispetto a quello dei giudici togati, e che alla scadenza del proprio mandato giudiziario torna presso il servizio sociale territoriale di provenienza.
La “sudditanza” del giudice minorile nei confronti degli operatori sociali, già così radicata nello stesso collegio giudicante, determina un ulteriore sbilanciamento – quasi una completa delega – a favore della valutazione della situazione da parte dei servizi sociali. Tali “informazioni” sono raccolte al di fuori di qualsiasi reale contraddittorio con le parti in causa, ma alle quali sole viene fatto riferimento nell’esercizio della funzione giudicante. Si ripercuote così anche sul piano dell’indagine probatoria la mancanza di terzietà e di riconoscimento di pari rilievo ad indagini e valutazioni tecniche portate dalle parti, che necessariamente in tale contesto soccombono innanzi a quelle dei servizi socioassistenziali. Quest’ultime sono valutate sostanzialmente dal collegio giudicante quale unico strumento affidabile, in quanto considerati propria esternazione diretta, escludendo peraltro in tale contesto anche la potenziale presenza di tecnici di parte.
Secondo alcuni, unico rimedio sarebbe l’eliminazione dal collegio giudicante dell’anomalia dei giudici non togati, restituendo in tal modo competenza e terzietà al giudice minorile ed alle sue funzioni, che dovrebbero rimanere confinate nel perimetro decisionale all’interno del quadro giuridico di riferimento.
Esecuzione penale nel procedimento minorile: le difficoltà rieducative
La mancata adozione di un ordinamento penitenziario specifico in tema di esecuzione penale nel procedimento minorile è attualmente in grave contrasto con il dettato degli artt. 31, comma secondo e 27 comma terzo della Costituzione, soprattutto alla luce della sostanziale divergenza delle finalità del procedimento penale a carico dei minori rispetto a quelle degli adulti e considerata la specificità della personalità e dell’identità ancora non strutturata e definita del minore[26].
Infatti, le finalità del sistema penale minorile mirano a costituire uno strumento di educazione rafforzata, allo scopo di attuare un recupero del minore, collegando la sanzione alla necessità di determinare un’evoluzione positiva della personalità dello stesso. Al contrario, l’assetto dell’ordinamento penitenziario per gli adulti stride con le finalità e gli istituti dettati per i minorenni.
Fondamentale nella formazione e nell’educazione del minore autore di reato è – o dovrebbe essere – la scuola.
Purtroppo, il suo ruolo negli istituti penali minorili perde il proprio valore educativo, perché pone spesso il ragazzo in un gruppo di minori eterogeneo e multiproblematico. Le classi sono frequentate da ragazzi con enormi difficoltà di apprendimento e di attenzione, di frequente provenienti da ripetuti fallimenti.
Le statistiche mostrano come le recidive sono più frequenti per i minorenni usciti dagli IPM (anche ove abbiano seguito durante la detenzione un percorso positivo di studio, di lavoro e di contatto con la società esterna) rispetto ai minorenni sottoposti a misure alternative alla detenzione, che confermano la loro maggior efficacia nell’educazione e nella risocializzazione del minore autore di reato[27].
Non è semplice neanche la posizione delle comunità residenziali[28], sempre più considerate il principale strumento di esecuzione penale extra-muraria deputata all’accudimento, alla cura ed al cambiamento del minore autore di reato. Per realizzare questa funzione, la comunità si pone al confine tra la normalità del mondo esterno e la reclusione della detenzione, ed i coordinatori e responsabili delle strutture che ospitano minori sottoposti a provvedimento giudiziario penale si destreggiano tra le esigenze di contenimento e controllo dei minori ospiti delle strutture e la necessità di creare per loro spazi di sperimentazione relazionale e di responsabilizzazione funzionali alla loro rieducazione. Si crea così un’evidente ed equivoca ambivalenza, dal momento che le norme procedurali definiscono il collocamento in comunità come una misura cautelare (caratterizzandola quindi come struttura penale deputata ad eseguire una misura limitativa della libertà personale, con una conseguente intrinseca afflittività) ma dall’altro lato consentono al giudice di autorizzare il minore alla frequenza di attività di studio, di lavoro o comunque educative.
Sempre nell’ottica di una semplificazione della gestione e dell’abbattimento delle difficoltà e dei rischi insiti in ogni allontanamento dalla struttura del minore collocato in comunità, vengono penalizzate e il più possibile evitate le uscite ed i contatti dei ragazzi con l’esterno. Di conseguenza, si amplifica la dimensione afflittiva della coercizione della permanenza nonchè l’autoreferenzialità pedagogica comunitaria stessa; si pone così nel nulla la valenza pedagogica della costruzione di una vita relazionale adeguata alle esigenze di sviluppo ed all’età cronologica dei minori collocati. Questi, infatti, non hanno più alcuno spazio di responsabilizzazione protetto, da gestire autonomamente, che possa positivamente incidere sul percorso trattamentale, con l’effetto di aumentare esponenzialmente le reazioni di conflitto e di contrapposizione. I ragazzi orientano così le proprie risorse verso un dannoso esercizio di affermazione di potere ed aumentano le spinte centrifughe verso evasioni e trasgressioni.
Peraltro, non “allenare” il minore ad un contatto positivo con l’esterno tramite il ritorno in un contesto protetto dove elaborare e rinforzare le difficoltà via via incontrate e non costruire una valida alleanza con la famiglia (che lo possa così accompagnare e sostenere al momento dell’uscita dal percorso comunitario), fanno sì che il periodo in comunità diventi una parentesi separata dal contesto di vita, da quel mondo esterno in cui il ragazzo deve far ritorno e con il quale non riuscirà, quindi, a costruire un rapporto pedagogicamente corretto.
Così, le comunità si riducono spesso a luoghi senza un effettivo focus sul percorso, ma solo sul presente, stante l’incompatibilità del tempo concesso (pochi mesi) con una progettualità evolutiva anche solo di medio periodo. Inoltre, la presenza contemporanea, sia negli IPM che nelle comunità, di minorenni, di giovani adulti, di stranieri (peraltro senza una mediazione culturale e linguistica), di adolescenti con oggettive patologie, porta quasi inevitabilmente al fallimento di un modello costruito intorno ad un singolo che si trova tuttavia immerso in un contesto che vanifica le basi stesse del progetto di sviluppo educativo che dovrebbe consentirne un positivo reingresso nel tessuto socio familiare di appartenenza.
La disparità di trattamento dei minori stranieri
Si deve considerare, inoltre, che negli ultimi anni è progressivamente aumentata la presenza dei minori stranieri. Nel loro caso però, a parità di reato, vengono applicate molto più frequentemente misure cautelari detentive (in particolare il carcere), vi rimangono per più tempo e sono più spesso sanzionati con una condanna, mentre molto di rado sono destinatari di misure in comunità alloggio, in famiglia ed in libertà.
Basti considerare come all’istituto della messa alla prova, la cui applicazione è cresciuta fino a interessare circa un quinto dei procedimenti totali, accedano per l’82% ragazzi italiani e solo per il 18% stranieri[29].
La misura detentiva, in questi casi, non è giustificata dal fallimento dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione, ma dalla loro oggettiva inapplicabilità, dal momento che si tratta spesso di minori stranieri irregolari sul territorio e non accompagnati, di solito privi di riferimenti e di contesti socio-familiari stabili. Inoltre, la cultura di provenienza, i valori, la lingua costituiscono difficoltà spesso insormontabili per gli operatori italiani, che non riescono così ad attivare interventi ed elaborare progetti educativi per loro. Già solo la ricostruzione della storia familiare e personale del minore, posta alla base di ogni decisione e giudizio sul minore, storia che trova le sue fonti principali nel racconto dei familiari, degli insegnanti e di eventuali operatori socioassistenziali, è praticamente impossibile da recuperare per il minore straniero non accompagnato. Si determina così una grave discriminazione tra minori italiani e stranieri rispetto alla possibilità di usufruire di percorsi non solamente meno afflittivi ma soprattutto più efficaci nel recupero e nella rieducazione del soggetto minorenne autore di reati.
Così, anche se la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui le misure alternative alla detenzione possono essere applicate anche allo straniero extracomunitario entrato illegalmente nello stato e senza permesso di soggiorno[30], tuttavia, nel procedimento minorile è oggettivamente difficile, se non impossibile, assicurare le finalità educative della pena nei confronti dei minori stranieri con l’utilizzo degli istituti speciali previsti, non essendo possibile coinvolgere il contesto familiare, spesso inesistente o clandestino. Allo stesso tempo, anche l’inserimento in comunità risulta spesso impraticabile o inefficace, data anche l’impreparazione delle strutture alla gestione della diversità etnica.
La difficoltà della giustizia minorile
A fronte di quanto esposto, è chiaro come un sistema molto sbilanciato – seppur giustamente – verso finalità rieducative del singolo individuo, possa trovarsi in crisi di fronte ad un fenomeno criminale minorile che è fisiologicamente (e statisticamente) molto influenzato dal modo in cui interagiscono tra loro i minori a rischio di commettere reati.
Tuttavia, si dovrebbe volgere l’attenzione al pericoloso meccanismo che si sta innescando nel trattamento rieducativo/sanzionatorio dei giovani che entrano in contatto con il processo minorile. Da un lato, infatti, i soggetti più fragili e a maggiore rischio – come gli stranieri o i ragazzi italiani con scarso o inesistente supporto familiare – hanno una maggiore probabilità di fallire i percorsi rieducativi o di non accedervi proprio; dall’altro, l’aumento di imputati provenienti da condizioni socio-economiche favorevoli rischia di rendere strumenti come la messa alla prova poco più di un debole rimprovero al singolo individuo (anche a fronte di reati gravi), senza sottrarlo concretamente alle dinamiche sociali che possono aver contribuito all’avvio di comportamenti devianti.
Peraltro, la ricerca prioritaria di un’uscita quanto più rapida possibile dal sistema della giustizia non si confronta adeguatamente con un’altra carenza del nostro sistema: la mancanza di responsabilizzazione in sede penale nei confronti dei danni cagionati alla vittima del reato. Insufficiente appare, in tal senso, il ricorso alla mediazione e ai percorsi di giustizia riparativa, che si presentano, invece, come strumenti utili per consentire al minore di confrontarsi attivamente con le conseguenze della propria condotta antisociale.
A ciò si aggiunga che gli organici degli USSM, che dovrebbero garantire l’attenta valutazione dei percorsi, sono spesso rappresentati come del tutto insufficienti[31] per fronteggiare l’imponente mole di lavoro (17.341 minorenni e giovani adulti nel 2022[32]), situazione destinata a peggiorare con l’ulteriore potenziamento dei riti alternativi in seguito alla Riforma Cartabia[33].
In ogni caso, sono sicuramente confortanti i dati che riguardano i tassi di recidiva, per cui i minori dopo la messa alla prova tornano a commettere reati in percentuale molto inferiore (22%) rispetto a coloro che invece sono stati condannati (63%)[34]. Anche se tale dato risente, come sopra evidenziato, del “campione statistico” di riferimento.
Nonostante tale elemento incoraggiante, questi strumenti di giustizia minorile non possono costituire l’unico metodo di gestione delle difficoltà di una popolazione giovanile che sembra essere cambiata nelle modalità di avvicinamento a comportamenti criminali – non più esclusivamente (o prevalentemente) come conseguenza di disagi socioeconomici o condizioni di marginalità.
L’intervento di ripensamento nell’approccio alla devianza minorile, al contrario, dovrebbe essere il frutto di una corale condivisione di contributi ed esperienze della famiglia (laddove possibile), della scuola e di tutte le istituzioni presenti sul territorio.
Infatti, a prescindere che si voglia prediligere una risposta di carattere maggiormente rieducativo o punitivo, sembra necessario rimettere al centro del dibattito sulla criminalità giovanile l’intervento positivo di tutte le figure di prossimità che possano avere un impatto significativo sui minori, in un’ottica maggiormente preventiva e partecipativa, piuttosto che ricercare sempre più ampi strumenti di “perdonismo rieducativo” che spesso celano alibi deresponsabilizzanti degli adulti e delle istituzioni nei confronti dei minori.
Avv. Giada Caprini
Avv. Marco Della Bruna
Riferimenti
[1] E. U. Savona, M. Dugato, E. Villa, Le Gang giovanili in Italia, Transcrime Research in Brief – Serie Italia n. 3, Ottobre 2022.
[2] Y. Parziale, La criminalità minorile di gruppo nel panorama internazionale. Prospettive per un adeguamento dell’attuale disciplina penale alle scoperte neuroscientifiche, Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea dell’Università Kore di Enna.
[3] B. B. Brown, M. J. Lohr, E. L. McClenahan, Early Adolescents’ Perception of Peer Pressure, Journal of Early Adolescents, 1986 Vol 6 N. 2 pp. 139-154.
[4] V. Pirrò, L. Muglia, M. Rupil, La crisi della famiglia e le nuove forme di devianza minorile: oltre la maschera, Giustizia Insieme, 21 aprile 2020.
[5] M. Warr, Companions in Crime. The Social Aspects Criminal Conduct, Cambridge University Press, 2002.
[6] https://nationalgangcenter.ojp.gov/spt/Programs/53
[7] A. De Giovanni, Genesi della convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989) e suoi più recenti sviluppi legislativi, Salento University Publishing.
[8] L’OIL e il lavoro minorile, AIDOS.
[9] Dichiarazione dei diritti del fanciullo (Dichiarazione di Ginevra 1924).
[10] Dichiarazione dei diritti del fanciullo (Dichiarazione di New York 1959).
[11] United Nations Standard Minimum Rules for the Administration of Juvenile Justice (The Beijing Rules).
[12] Young offender aftercare, College of Policing.
[13] Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989).
[14] United Nations Guidelines for the Prevention of Juvenile Delinquency: The Riyadh guidelines.
[15] J. Bourquin, M. Gardet, Éducation surveillée, Enfants en Justice.
[16] P. van der Laan, Alternative Sanctions for Juveniles in the Netherlands, NCJRS Virtual Library, U.S. Department of Justice, 1993.
[17] Diversion programs, Youth.gov.
[18] “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
[19] “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.
Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.”
[20] https://giurcost.org/decisioni/1964/0025s-64.html
[21] https://giurcost.org/decisioni/1973/0049s-73.html
[22] https://giurcost.org/decisioni/1981/0016s-81.html
[23] https://giurcost.org/decisioni/1987/0206s-87.html
[24] https://giurcost.org/decisioni/1973/0049s-73.html
[25] Gianfranco Dosi: Il mio punto di vista su… Angeli e demoni: le responsabilità della giustizia minorile, Lessico di Diritto di famiglia.
[26] Esecuzione penale nel procedimento minorile, Stati Generali dell’Esecuzione Penale, Tavolo 14.
[27] La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato, Collana “I NUMERI pensati”, a cura di Isabella Mastropasqua, Maria Maddalena Leogrande, Concetto Zanghi, Maria Stefania Totaro, Luca Pieroni, Alessio Gili, Gangemi Editore, Roma ‐ maggio 2013.
[28] A. Scandurra, Le comunità di accoglienza per i minori e la messa alla prova, Ragazzi Dentro, Febbraio 2020.
[29] La sospensione del processo e messa alla prova, (art. 28 D.P.R. 448/88). Dati statistici Anno 2021, Ministero della Giustizia.
[30] Cass. SS.UU. 27.04.2006 n. 14500.
[31] Nuove piante organiche del DGMC, FP CGIL, UIL PA, CISL FP, 28 febbraio 2023.
[32] Minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi minorili. Analisi statistica dei dati, Ministero della Giustizia, 2022.
[33] D. Di Cecca, I riti alternativi nel processo penale minorile e la “Riforma Cartabia”, Ragazzi Dentro.
[34] La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato, cit.
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