Leggi l’articolo originale su Il Fatto Quotidiano
di Giovanni Valentini
Risse, pestaggi, scippi, rapine ed estorsioni, stupri di gruppo, spaccio di droga vissuto come “alternanza scuola-lavoro”. La delinquenza giovanile dilaga e diventa sempre più aggressiva e violenta. Fino agli episodi degli ultimi giorni: la tredicenne abusata da un “branco” di sette ragazzi egiziani a Catania e la professoressa accoltellata alla schiena da un diciassettenne a Varese. E all’interno di questo inquietante fenomeno proliferano le cosiddette “baby gang”, strutturate e feroci come clan della criminalità organizzata, un tema su cui lo Studio legale De Vita ha redatto un ampio e approfondito rapporto, a firma degli avvocati Giada Caprini e Marco Della Bruna.
In base ai dati raccolti dalle Forze di polizia e dai Servizi sociali, i caratteri distintivi di queste formazioni sono la gravità e la ripetitività dei reati commessi. Spesso i gruppi si distinguono per comuni caratteristiche socio-anagrafiche dei componenti, tipologia di attività sui social media e il tentativo di operare forme di controllo sul proprio territorio: la maggioranza dei ragazzi sono italiani e circa la metà non provengono da situazioni di disagio socioeconomico, con una prevalenza di adolescenti tra i 15 e i 17 anni.
Una ricerca del 2022, realizzata in collaborazione con il ministero della Giustizia, ha evidenziato un aumento notevole degli articoli di stampa contenenti riferimenti a “gang giovanile” o “baby gang” negli ultimi anni. Dai 612 del 2017 si è passati fino ai 1.909 del 2022.
Le tipologie delle bande minorili sono diverse, alcune delle quali ispirate alla criminalità adulta, nostrana o straniera. Ma le più diffuse sono rappresentate da gruppi di ragazzi non organizzati, con legami sociali deboli e privi di gerarchie definite o fini criminali specifici, dediti soprattutto ad attività violente o devianti occasionali.
Secondo gli Uffici di servizio sociale per i minorenni, solo il 3% dei ragazzi coinvolti in reati commessi da gang giovanili finiscono negli istituti di pena per minorenni. Nella maggior parte dei casi, invece, vengono affidati a programmi rieducativi: l’istituto della “messa alla prova”, una sorta di libertà vigilata o condizionata, è applicato a circa il 50%. Ma, accanto a pur lodevoli attività di studio e di lavoro, socialmente utili o di mediazione con le vittime, risultano minoritarie (intorno al 15%) le prescrizioni sul rispetto degli orari o il divieto di frequentare determinati luoghi e persone.
Di fronte alla deriva della condizione e del disagio giovanile, si assiste intanto al naufragio della giustizia minorile. Nel 2022, erano 14.221 i ragazzi in carico al Servizio sociale minorile nell’ambito dei procedimenti penali per i reati più gravi, tra i quali 6.400 campani. I detenuti presso i 17 Istituti penali minorili erano 400, di cui 201 stranieri (il 50%), principalmente rumeni, a seguire marocchini e quindi albanesi.
“La delinquenza minorile – come si legge nel dossier dello Studio De Vita – si ‘normalizza’ sempre di più, inscrivendosi nell’ambito di un generalizzato disagio giovanile più che in una devianza in senso stretto, sintomo di una società in trasformazione, ma anche di istituzioni e strumenti di prevenzione e contrasto inadeguati”. È, in pratica, un atto d’accusa che deve far riflettere se si vuole contrastare un fenomeno sempre più preoccupante.
Quant’è capace, dunque, il nostro sistema giudiziario di affrontarlo? Il problema non si può ridurre al comportamento deviante di un singolo soggetto, ma va inquadrato necessariamente in un contesto sociale più ampio. Né si può risolverlo con una risposta superficiale, da parte dell’opinione pubblica e soprattutto della politica, per invocare l’abbassamento dell’età imputabile o un maggior ricorso al carcere. L’esperienza degli operatori dimostra, anzi, che spesso la reclusione aggrava la condizione dei minori e la rende per così dire cronica.
La segregazione punitiva dei minori devianti era iniziata già nel Diciottesimo secolo, con il superamento dell’equiparazione agli adulti autori di reati e un approccio più pedagogico soprattutto da parte della Chiesa cattolica. Nel 1956, fu introdotto il Codice di procedura minorile, segnando una netta svolta in materia, per arrivare all’attuale impianto con la riforma del 1988, incentrata sulla responsabilità del minore e sulla sospensione del processo con la “messa alla prova”.
Nello sviluppo della giustizia minorile, un ruolo centrale l’ha assunto nel corso del tempo la Corte costituzionale. Le sue sentenze hanno adattato le norme alle esigenze specifiche della giustizia minorile, ispirandone l’interpretazione agli articoli 27 (terzo comma) e 31 (secondo comma) della Carta: l’uno sulla rieducazione del condannato e l’altro sulla protezione della gioventù. E inoltre, hanno costituito un fondamentale punto di partenza verso la riforma del processo minorile del 1988.
Imperniato sul principio della “minima offensività”, il rito penale è diventato così un’occasione di recupero sociale del minore, prima che affermazione della pretesa punitiva da parte dello Stato. Il criterio rieducativo ha assunto un significato e una rilevanza del tutto particolari, in considerazione del fatto che l’educazione dei minori non è compiuta, bensì in evoluzione, come anche la loro personalità. Fondamentale nella formazione e nell’educazione del minore autore di reato è – o dovrebbe essere – la scuola. Purtroppo, il suo ruolo negli istituti penali minorili perde il proprio valore educativo, perché coinvolge spesso il ragazzo in un gruppo di minori eterogeneo e problematico. Le classi sono frequentate per lo più da giovani con enormi difficoltà di apprendimento e di attenzione, di frequente provenienti da ripetuti fallimenti. Le statistiche mostrano, tuttavia, che le recidive sono più frequenti per i ragazzi usciti dagli IPM, anche quando abbiano seguito durante la detenzione un percorso positivo di studio, di lavoro e di contatto con la società esterna, rispetto ai minorenni sottoposti a misure alternative alla detenzione.
Negli ultimi anni, inoltre, è progressivamente aumentata la presenza dei minori stranieri. Ma nel loro caso, a parità di reato, vengono applicate molto più frequentemente misure cautelari detentive, in particolare il carcere; rimangono dietro le sbarre per più tempo e sono più spesso sanzionati con una condanna, mentre molto di rado vengono destinati a misure in comunità-alloggio, in famiglia e in libertà. Tant’è che l’istituto della “messa alla prova” viene applicato per l’82% a ragazzi italiani e solo per il 18% agli stranieri, con una grave discri- minazione e loro danno. In ogni caso, sono sicuramente confortanti i dati che riguardano i tassi di recidiva: i minori, dopo la “messa alla prova”, tornano a commettere reati in percentuale molto inferiore (22%) rispetto a coloro che invece sono stati condannati (63%).
Conclude l’analisi dello Studio De Vita: “A prescindere che si voglia prediligere una risposta di carattere maggiormente rieducativo o punitivo, sembra necessario rimettere al centro del dibattito sulla criminalità giovanile l’intervento positivo di tutte le figure di prossimità che possano avere un impatto significativo sui minori”. E quindi, in primis famiglia; e poi, insegnanti scolastici, educatori, istruttori sportivi. Tutto ciò “privilegiando un’ottica preventiva e partecipativa, piuttosto che ricercare sempre più ampi strumenti di ‘perdonismo rieducativo’ che spesso celano alibi deresponsabilizzanti degli adulti e delle istituzioni nei confronti dei minori”.
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