Severità/Permissività, declinazioni della coesistenza – Rapporto Italia 2024

Il saggio del Prof. Avv. Roberto De Vita pubblicato all’interno del 36° Rapporto Italia di Eurispes, che è stato presentato il 24 maggio 2024 presso la Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

Le difficoltà più serie cominciano quando un uomo

è libero di fare quello che vuole.
T.H. Huxley

Tra individuo e società

Dall’incertezza alla percezione della fragilità, la dimensione del disorientamento individuale diviene orizzonte sistemico nel secolo del conflitto tra “futuro minaccia” e nostalgie retrotopiche.
L’accelerazione delle trasformazioni sociali, determinate dall’inversione del paradigma di relazione nel rapporto uomo-macchina, innesca moti di cambiamento antropologici difficilmente predicibili (ma facilmente postulabili), le cui manifestazioni native sono già visibili.
E se questo è il perimetro (oscuro) del processo di cambiamento, i suoi sistemi (in)consapevoli di governo si confrontano tra severità e permissività come antipodi e bilancia di speranza alchemica, tra visioni d’ordine e disciplina e visioni di libertà e creatività. Dimensioni alcune volte in conflitto, altre volte in continuità di maturazione (embrionale nella trasformazione), altre ancora in illuminato equilibrio. Dalla riflessione filosofica all’indagine sociale, attraversando l’introspezione individuale fino a giungere al metasignificante della regola normativa, l’apparente dicotomia si appalesa nella primigenia ed insopprimibile coesistenza cromosomica di individuo e società.

Leviatano digitale ed “energia creatrice”

La ricerca filosofica, dopo essersi interrogata con pensiero umano sulla forma di Dio, s’immerge con pensiero analogico negli abissi dell’Intelligenza artificiale. La creatività derivante dalla libertà di ricerca scientifica viene, da alcuni, letta come rischio di esistenza stessa del genere umano, quasi in una visione distopica di un Leviatano digitale (Terminator ed il suo Skynet), mentre da altri è considerata come unica proiezione salvifica, a fronte di un insostenibile rapporto tra risorse naturali scarse e popolazione mondiale. E se il rapporto tra filosofia e tecnologia è da sempre esplorato, temi contemporanei radicalizzano sempre più il confronto: da una parte, la necessità di severità e ordine nel governo delle trasformazioni tecnologiche (con tratti di luddismo celato) e, dall’altra, l’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive cui si pensa (con tratti di fideistico affidamento) che potrà condurre l’“energia creatrice” di queste macchine prodigiose per l’umanità.
Poiché è l’incertezza a (dover) rappresentare il metodo di ricerca del filosofo ‒ unico vero esploratore nell’universo della sovrastruttura del pensiero ‒ la dicotomia tra severità e permissività assume il colore caleidoscopico dell’osservazione kantiana e non costringe all’assunzione del rischio da fallibilità predittiva ed errore: il metodo prevale sul merito, l’indagine sul risultato, magma, più che fluido, allo stato vaporoso.
E questo nonostante il confronto possa assumere la rassicurante tensione classica tra il rigorismo etico collettivo di Platone e la rilevanza dell’equilibrio tra (e degli) individui nel pensiero di Aristotele, nel quale ad una severa regolamentazione delle vite dei cittadini (severità per l’ordine e la giustizia) viene preferita la fiducia nella moderazione e nel buon senso individuale.
Una sorta di agone infinito che non può avere vincitore o vinto: questi ultimi sono concetti di negazione terminale che non possono trovare ospizio nelle formazioni umane post preistoriche, dove il rapporto tra società e individuo può essere riscritto o, meglio, descritto nella epistemologia del rapporto tra severità e permissività.

Miscela efficiente

L’analisi si sposta, quindi, verso il significato funzionale, finalistico, morale, utilitaristico dei due concetti e non più sulla loro inevitabile coesistenza, verso le declinazioni di miscela efficiente, la ricetta politica e la dosimetria normativa, sempre con lo sguardo rivolto all’alchimia della risultante sociale ed economica.
E mentre il Santo d’Ippona si affida alla severità della legge divina come criterio d’ordine ed alla grazia come eccezione di conferma per i mortali limiti, Tommaso d’Aquino, con impeto da sociologo e psicoanalista ante litteram, pone la comprensione individuale e la considerazione misericordiosa per quei limiti all’interno del tessuto della legge morale naturale (trama più che ordito).
Nel pensiero cristiano la ricerca della predetta miscela indaga l’imperscrutabile disegno divino, cercando di cogliere segni di via, segnali di rotta, e collocando gli esiti, anche quelli nefasti, come conseguenza dell’ineluttabile volontà di Dio e dell’espiazione dell’umana imperfezione. La società politica medioevale è quindi guidata dagli alchimisti dei veleni protettivi e curativi: dosi dell’una (severità) o dell’altra (permissività) proteggono, curano, uccidono o spengono, progressivamente, la dosimetria nel risultato raccolto dagli storiografi.
Con l’Illuminismo si abbandonano (in parte) l’insondabile e l’impredicibile (considerati spesso ‒ e a ragione – legittimazioni del potere dispotico) e l’individuo e la sua libertà assumono autonomia valoriale, seppur da governarsi secondo regole sociali e morali: queste ultime non sono più insondabili, ma si devono ricercare nell’uomo stesso e nella sua vocazione consociativa. Rousseau scrive il metodo per il governo e le regole, mentre Mill, attraverso la misurazione del benessere sociale, guarda alla felicità degli individui nella società attraverso la doppia dimensione assecondante-efficiente e risultato-tendente.
Solo però con Friedrich Nietzsche e poi, ancor più, con Sigismund Schlomo Freud, permissività e severità si interiorizzano sino a diventare esaltazione dell’individuo, nonché superamento dei limiti dell’individualità, da un lato, e categorie dell’essere e del dover essere, dall’altro. Non si indaga più solo il rapporto e l’equilibrio tra società ed individui partendo dall’imperativo d’ordine, ma si ricerca la proiezione ‒ partendo dall’individuo e nell’individuo ‒ della libertà, della creatività e del conflitto interiore.

Redini di governo

Tuttavia, alle nobili introspezioni sociologi e politologi preferiscono le macroanalisi di sistema, anche perché più la società si struttura, più lo studio delle sovrastrutture diventa urgente. E poiché la severità e la permissività sono redini di governo, Michel Foucault analizza l’uso delle pratiche punitive per regolare i comportamenti e le concessioni degli spazi di libertà, o la tolleranza delle ribellioni per mantenere il controllo sociale. Man mano si affermano, nel contrapporsi dei modelli novecenteschi di libertà individuale e di giustizia sociale, varianti di miscele a diversa intensità dell’una e dell’altra, un imprescindibile Nozick ed un nobilitante Rawls.
L’interrogativo dominante nel pensiero diacronico della sociologia classica è se la severità sia innervata nel sistema delle regole sociali in quanto tale, se il concetto di permissività si collochi fuori dalle regole o all’interno di esse, se la società sia, in quanto tale, manifestazione della soppressione inevitabile di una quota di libertà individuale; analisi però non più metalogica, bensì metodologica, interessata più che alle premesse alle conseguenze, alla sondabilità della relazione tra norma azione e risultante sociale e sinanco alla sua misurabilità.

“Società meccaniche” e “società organiche”

Le “società meccaniche” di Durkheim, alle cui fondamenta vi è una forte condivisione di valori e credenze, hanno un conseguente alto livello di conformità-severità alle regole sociali. A queste si contrappongono le “società organiche”, dove la diversità e l’equilibrio tra le diversità degli individui richiedono un grado maggiore di permissività nelle regole sociali. Severità e permissività descrivono quindi la natura stessa della consociazione, ovvero quale sia la sua radice (identificazione versus coesistenza), esaltando la tensione tra coesione comunitaria e anomia: quest’ultimo concetto, nella sua estremizzazione, può essere considerato come negazione stessa della dimensione comunitaria e quindi foriera di disintegrazione sociale e negazione della società in quanto tale. Nuovamente, come nella dimensione della ricerca filosofica, anche per i sociologi la declinazione in ultimo si riduce alla disfunzionalità virtuosa del rapporto tra individuo e società.
Tuttavia, con Weber e con Adorno il pensiero volge rapidamente a ciò che consente (perché e come) alle società di determinare l’adesione (costrizione) alle regole sociali, ricercando nella stratificazione indotta di modelli culturali (anche apparentemente individualistici) la chiave del controllo sociale, male ineluttabile e necessario per alcuni, auspicabile viatico della giustizia sociale attraverso il benessere collettivo, per altri (Marx). Da qui l’apparente ossimoro della società severa nella regola permissiva: qui a costrizione e punizione si sostituiscono l’omologazione culturale e la identificazione “religiosa” comunitaria, condivisione e appartenenza delle società meccaniche di Durkheim.
La società organica, quella dell’equilibrio e della coesistenza delle diversità, appare quindi solo una fase di passaggio, crisalide transeunte ovvero antifrasi della permissività.

Declinazioni della coesistenza

Società e individuo, severità e permissività, giustizia sociale e libertà individuale, sicurezza e libertà, punizione e perdono: declinazioni (dicotomiche?) della coesistenza. Filosofi, sociologi ed economisti indagano radici, causa ed effetto, metodo e misura; i giuristi (governatori distopici della sovrastruttura) offrono strumenti. Che siano quelli della tortura inquisitoria, quelli della tolleranza stupefacente, quelli del laissez-faire, o quelli della fascinazione orwelliana. Nobilitanti intenti estremizzano l’agire tra il metagiuridico (del metà giurista e metà filosofo o sociologo) ed il formalismo meccanicista (del magistrato ad applicar chiamato), privi di fondamenta proprie ma “illuminati” dalla ragione altra, fino ad esser (auto)serventi, al contempo libertari e paternalistici, capaci di trovar nella calligrafia la radice giustificatoria delle leggi razziali e della non discriminazione (Scuola di Kiel).
Nella società contemporanea i giuristi, convinti regolatori della (co)esistenza, autoaffermano il proprio assioma: chi scrive le norme, chi materialmente le redige, si rende esegeta assoluto del pensiero primo (gli altri, filosofi e sociologi, sono anime belle); i giudici, chiamati a far applicazione della forma dell’estratto esegetico, sono despoti dell’armonia, tra vestimenti di confezione e corpi mutaforma.
E quando nella fortunata dimensione delle moderne severità il concetto di democrazia si afferma come merito e non come metodo, anche le guerre hanno la loro base di diritto (seppur la ragione altro direbbe). Poiché il filosofo indaga (almeno apparentemente) senza confini o territori e il sociologo perscruta diffidente ogni sovrastruttura, il pensiero giuridico è quello che più si presta per primo ad esser arruolato nei reparti speciali delle democrazie, quelle in cui è il regime culturale a governare la coesistenza e dove alla severità si preferisce l’omologazione culturale, che inganna con fasulle permissività (tipiche occidentali), o quelle in cui la libertà di voto è abito trasparente che mostra le cicatrici del dissenso.
Se poi, come da esordio, il perimetro si fa oscuro, i presagi proiettano la dicotomia su struttura e sovrastruttura, dove l’uomo e la macchina ed il loro (inter)agire sono i nuovi individui e la società con le sue regole è ancora tutta da indagare, prima ancora che velleitariamente da regolare.
E qui, per far salto contaminante nella pedagogia sociale e con ausilio della metafora genitoria, si pensi allo smarrimento ed al parossismo del padre di fronte al nativo digitale ed al suo cambiamento neurologico oltre che psicologico, dove il cervello plastico non ha più la struttura di un libro ma quella di uno smartphone: quale severità e quale permissività (e quali risultati produrranno), in attesa della connessione terminale alla macchina? Ancor più complesso appare il bilanciamento educativo nella scuola, dove si ha per definizione la responsabilità di non abbandonare l’ultimo e al contempo di promuovere l’insieme, dove l’educazione alla regola è antesignana dell’educazione sociale, dove al concetto di libero sviluppo dell’identità si associa, clandestina, la devianza normalizzata.

Una “società spaventata?”

Proprio nelle fasi di più grande trasformazione rivoluzionaria, distruttrice e creatrice, dove la decadenza dell’anomia individuale porta al disfacimento sociale e, parimenti, alla riaffermazione di un individualismo immedesimante in valori di estremismo integralista, dove la diversità marca il confine dell’appartenere e non della ricchezza della coesistenza, dove la paura rende ostili e forastici, la severità deve regolare la coesistenza e non l’immedesimazione, mentre la permissività deve essere incentivo di forza creatrice, licenza per i meritevoli, conseguenza di fiducia meritata.
Quando si osserva inerti l’ingravescente tolleranza per condotte di insofferenza alle regole sociali, quando la rivendicazione unilaterale per diritti individuali diventa negazione della coesistenza, si afferma la progressiva assuefazione alla irresponsabilità. La devianza individuale diventa sistemica, l’anomia governa nella logica della sopraffazione.
Autoreferenzialità dei diritti, contrapposizione ideologica ai doveri, irresponsabilità giustificata dal disagio individuale o dalle colpe di sistema.
La famiglia come le comunità, la scuola come le Istituzioni, sedotte dal benessere del secolo post-ideologico, dall’assenza del conflitto organizzato, hanno ceduto il passo alla libertà apparente della individualità primordiale, smontando, perché ritenute arcaiche, le sovrastrutture della coesistenza, percepite come inutili impalcature e fidando (per ignorante buona fede) che lo spontaneismo regolatorio fosse (in ogni tempo) cemento stesso della società.
Si pensi alla deriva della patria potestà, condivisibilmente estesa (nell’estetica e nel merito) alla responsabilità genitoriale e drammaticamente affondata nei perigli dell’insoddisfazione giovanilista degli adulti e nell’anarchia sofferente dei minori. Una infanzia non più negata dal bisogno materiale ma dall’abbandono affettivo ed educativo di genitori disorientati ed irresponsabili a cui è stato vietato punire ma non trascurare.
Non diverse le sorti della Scuola, in cui il bullismo degli studenti e dei loro genitori e la rassegnazione per povertà culturale e di sostegno degli insegnanti, è vera rinuncia pedagogica e civile, dove è stato vietato giudicare, punire e premiare, perché ritenute manifestazioni mortificanti dell’esprit de jeunesse.
Famiglie e scuole maturano ragazzi sempre più fragili e arroganti, per poi lasciarli precocemente ad un vivere sociale ancor più agitato e tenebroso (di cui gli adulti ben poco colgono). I numeri drammatici delle nuove dipendenze di minori progressivamente più piccoli, alcool e stupefacenti, i numeri delle cicatrici della sessualità malvissuta, l’esplosione del disagio psicologico grave e il numero dei suicidi tra i giovanissimi, l’aumento della gravità dei reati minorili, ne sono sintomi sempre più manifesti.
Una società dove gli individui si sentono maggiormente invisibili e soli e per questo sono sempre più scarabocchiati sulla pelle ed accompagnati da peluche animati, incapaci di relazionarsi oltre l’esibizionismo estetico dei post per immagini e della paura del fallimento emotivo relazionale.
Il conflitto, che una volta – quando era tra società (severità) e ricerca di libertà degli individui (permissività) – generava forza creatrice, di innovamento civico e morale, economico e politico, si è interiorizzato; non è più conflitto di classe ideologico, ma è divenuta sofferenza individuale, frustrazione solitaria. Gli individui faticano a riconoscersi tra loro, mantengono diffidenze, l’appartenere è solo commerciale e consumeristico o animato dall’odio verso l’altro debole o diverso (nel timore dello specchio) e l’essere diventa psicopatologico, perché il conflitto interiore genera frustrazione e distruzione.
Non deve pertanto sorprendere se negli ultimi cinque anni il numero drammatico di giovani (tra i 15 e i 34 anni) che non studiano, non lavorano e non stanno facendo formazione (per quanto in leggero calo nell’ultimo anno) continui ad oscillare tra i due e i tre milioni.
Al tempo stesso, quelli impegnati vedono un progressivo impoverimento dei traguardi negli studi e nel livello occupazionale.
Il motore della società è rassegnato e spaventato e, libero dal bisogno materiale e di conquistare libertà e diritti, rimane privo di stimoli e motivazioni.
Non sono certo solo queste le cause (sempre complesse, profonde e storiche negli alibi di tutte le classi dirigenti) della deriva esistenziale di generazioni, ma difficile dubitare che la rinuncia alla severità educativa, alla regola di valore, all’obbligo comunitario, alla premialità di risultato, abbiano fatto bene a figli e a studenti.
All’inizio apparve come scelta ideologica, di valore, il superamento dell’oppressività patriarcale nella famiglia e nella scuola italiane del dopoguerra, dove la severità era assioma. Sembrò di aver liberato il metodo educativo (la società per intero) dal dispotismo e innestato (per movimento di aspirazione rivoluzionario) lievito vitale, fermenti creativi, destinati a coniugare libertà, spontaneismo, miglioramento individuale e collettivo.
Forse altrove è accaduto, ma non certo in Italia dove, all’abbattimento di una sovrastruttura, non è conseguito miglioramento, semmai un abbandono. Abbandono anzitutto affettivo, la genitorialità è responsabilità e la severità educativa è impegno primariamente affettivo, di presenza, di ascolto, di confronto, tutte attività incompatibili con il giovanilismo degli adulti alla ricerca della loro gratificazione e con poco tempo per essere genitori; quindi, meglio delegare o dubitare, meglio giustificare, meglio comprendere, meglio perdonare, meglio lasciar sbagliare e “speriamo che se la cavi”. E se la Scuola agisce severa e ci ricorda gli impegni assunti con la famiglia e con la società allora è paternalistica e quindi sbagliata, mentre se i risultati di merito degli studenti non soddisfano e innescano tensioni e depressioni allora meglio premiare tutti e “speriamo che se la cavino”.
La severità è impegno, oggi il suo “superamento” non è più ideologico o valoriale, ma alibi per adulti inadeguati e impegnati in altro.
Ed è la stessa malattia che consuma le istituzioni di fronte ad un degenerare, non solo generazionale ma comunitario, di condotte di abuso e violente, come quelle che racconta la cronaca della sopraffazione quotidiana.
Ma non è certo un semplicistico richiamo a soluzioni d’ordine, alle severità di una volta, all’uso di mezzi di correzione, alla punizione redentrice, a rappresentare il viatico salvifico. Perché dopo la rivoluzione digitale la distanza “neurologica” tra le generazioni dei piccoli e quelle dei grandi è aumentata sideralmente e non può certo un sussulto retrotopico analogico regolare libertà e responsabilità nell’ecosistema dell’umanità digitale.
In attesa di tracce di indirizzo di un nuovo Pestalozzi, nella sua visione pedagogica per piccini e per adulti, per individui, famiglie e società, dove prima di precettare si deve esplorare lo stato di natura, quello sociale e quello morale, ci abbandoniamo collettivamente ad una nuova società, che prima della completa metamorfosi digitale sarà la “società spaventata”.

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